Gli errori da non fare dal punto di vista aziendale quando parliamo di sostenibilità

Vi abbiamo parlato di sostenibilità aziendale, concentrandoci in primo luogo sul significato di questo termine, che unisce sostenibilità ambientale, sociale ed economica, e in seconda istanza su come le aziende dovrebbero costruire un percorso sostenibile personalizzato.

Ci troviamo infatti in un momento storico in cui la sostenibilità, in particolar modo quella ambientale, sta diventando una necessità: le aziende hanno compreso questo concetto, sino a percepirlo come una vera e propria urgenza.
Ma si sa, la fretta è cattiva consigliera e talvolta troviamo esempi di comunicazione sostenibile che toccano (o oltrepassano) il confine del green washing.

Una passata di verde

Green washing è una declinazione del concetto di white washing, che stava a indicare il fatto di coprire di bianco eventuali tracce di sangue a seguito di un delitto. È un termine legato al mondo del crimine o eventualmente a quello cinematografico, dove i crimini vengono nascosti attraverso pratiche poco convenzionali e legali.
Il green washing è l’equivalente in campo sostenibilità: si vuole dare una percezione di verde anche laddove di verde c’è ben poco ed è la prima pratica da evitare.

La comunicazione, e spesso anche la realtà, è questione di punti di vista e a seconda di come raccontiamo una storia possiamo far emergere gli elementi che preferiamo far percepire all’esterno.

Ed è così che si scopre che il nostro amato brand di pasta 100% italiana, 100% rispettosa dell’ambiente e fortemente legata al nostro Paese in realtà importa il grano dall’estero.

Oppure si scopre che la più grande catena di fast food del mondo si appoggia a produttori nazionali che lavorano con allevamenti intensivi, produttori il cui brand viene venduto ai consumatori italiani come rispettoso e sostenibile.
Tuttavia i termini “allevamento intensivo” e “sostenibilità” non possono per loro natura convivere nella stessa frase: un allevamento intensivo è per definizione una pratica non sostenibile. Non rispetta l’ambiente, non rispetta (per usare un eufemismo) gli animali e, ciliegina bio sulla torta, non genera alimenti utili alla salute dell’uomo.

A proposito di bio, anche il settore agricolo necessità di una bella ripulita in termini di green washing: in molti casi l’etichetta bio non è altro che una certificazione da prendere una tantum. Una volta presa tale certificazione non esiste un reale controllo sul tipo di coltivazione, sui processi e sugli elementi chimici utilizzati.

Se si apre l’argomento certificazioni si potrebbe parlare per ore di green washing. Prendendo spunto dal documentario Netflix “Seaspiracy” possiamo citare il caso dell’industria della pesca intensiva.
Il pesce che mangiamo ogni giorno è frutto di pratiche che stanno distruggendo gli ecosistemi marini. Man mano che i consumatori più pignoli hanno cominciato a far emergere che sarebbe il caso di rivedere tali pratiche sono nati enti certificatori che hanno “risolto il problema”, come? Con (in)utili certificazioni.
L’etichetta “pesca sostenibile” ha cominciato a comparire in enormi imbarcazioni dedite alla pesca sostenibile, tuttavia un po’ alla volta si è compreso che il termine pesca sostenibile in realtà è molto rarefatto, il paragone col nostro conto in banca ci rende bene l’idea. Il nostro stile di vita è da considerarsi sostenibile se gli interessi sul nostro capitale sono tali da coprire le nostre spese, quando invece spendiamo i nostri risparmi non stiamo spendendo in maniera sostenibile. Se spendiamo più del 90% dei nostri risparmi siamo oltre il limite della depressione economica, possiamo anche raccontare ad amici e stakeholder di essere ottimi economisti, ma ciò non cambia la realtà dei fatti. Il business della pesca funziona esattamente così: oltre il 90% della quasi totalità delle specie marine è scomparso a causa della pesca intensiva e dell’inquinamento da essa causata, ma l’etichetta “pesca sostenibile” è facilmente acquistabile se si hanno milioni di dollari da investire in tal senso.

Torniamo a noi, alla nostra azienda e alla volontà di intraprendere quindi un percorso che sia realmente sostenibile, come comportarsi?

Non seguire gli esempi sopracitati è sicuramente un buon inizio.

Le persone, i nostri potenziali clienti, stanno sviluppando una certa sensibilità verso l’argomento sostenibilità e, chi più chi meno, non sono disposti a farsi prendere in giro.

Ciò che ci si aspetta dalle aziende in questo momento è un cambio di direzione, non una soluzione dall’oggi al domani.
Esistono centinaia di migliaia di aziende diverse con caratteristiche differenti, ognuna deve dare il proprio contributo cominciando il cosiddetto percorso di transizione ecologica. Ognuna, però, deve farlo a seconda delle proprie caratteristiche: comprendendo quali sono i processi da ottimizzare in un’ottica green, quali sono invece quelli che in questo momento non possono assolutamente essere toccati, comprendendo in che modo lo Stato incentiva a livello economico la transizione in maniera tale da apportare cambiamenti che, soprattutto in un periodo economicamente massacrante come quello che stiamo attraversando, non sarebbero sostenibili in autonomia.

Siamo in un momento in cui le aziende devono fare una scelta: cominciare una transizione che le porterà sulla strada della sostenibilità aziendale o limitarsi a raccontarla senza cambiare realmente.Saranno i prossimi mesi e anni a dirci chi avrà fatto la scelta giusta, nel frattempo Simulware si mette a disposizione delle aziende che credono che un cambiamento sia possibile, impegnandosi a conoscere le vostre caratteristiche e il percorso personalizzato che vi permetterà di dare il vostro contributo.

Se vuoi approfondire l’argomento non esitare a contattarci.

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